Parlo di orsi...parlo di yoga...parlo di me.
Lunedì 2 settembre 2019 ho seguito su Rai Tre un servizio di attualità circa l'utilizzo - nel
mondo - di parti di animali, per scopi cosiddetti «medicamentosi”». Credo sia una parola
da maneggiare con cura, come si fa con le cose delicate. Per «medicamentoso» si
intende l'utilizzo di parti "nobili" di animali, che servono per curare malattie "fisiche" ma
anche - se vogliamo - parti funzionali a sollecitare alcuni comportamenti del nostro vivere
quotidiano.
Non entro nel merito dell’utilità o meno di queste parti di animali (corna, organi genitali,
bile), desidero invece riflettere sul dolore - un dolore profondo - che ho avvertito durante
la visione di quel servizio televisivo. La prima cosa a cui ho pensato è stata la mia miseria
di essere umano confrontata alla grandezza di quelle povere bestie. Quando è stata
illustrata la tecnica utilizzata per estrarre il succo prodotto dalla bile di un orso in vita -
ripeto: IN VI-TA - il dolore è stato insostenibile.
Ho pensato che la vita è un bene prezioso. Ho riflettuto sulla mia vita «salvata» dallo yoga. Dico «salvata» perché le
tecniche yoga mi hanno insegnato ad utilizzare il muscolo diaframma, a dargli elasticità e a sopravvivere al dolore
che la vita stessa contempla. Provo a spiegarmi. Il Grande Maestro B.K.S. Iyengar definiva il muscolo diaframma la
«Finestra dell'anima» e non credo esista una definizione più corretta. Quando abbiamo paura, quando il dolore ci
vince; è allora che il diaframma si irrigidisce. E’ come ricevere un pugno allo stomaco. E’ come uno schiaffo alla
nostra anima. Questo succede perché il diaframma è un muscolo che divide la parte superiore da quella inferiore del
tronco. Si attacca alla colonna vertebrale (dietro), alle varie costole (lateralmente) e allo sterno (davanti). E’ a forma
di cupola sotto la quale ci sono fegato intestini e stomaco e sopra cuore e polmoni. Quando inspiriamo il diaframma
scende verso l’area pubica, quando espiriamo torna verso l’altro, verso il cuore. E’ un’azione fondamentale. Credo
anzi sia il piedistallo su cui poggia il nostro equilibrio, sia fisico che mentale. Di fronte alla paura o al dolore il respiro
si accorcia - non diciamo forse: mi manca il respiro - e questo succede perché il diaframma non riesce più a
sviluppare il suo tipico movimento di inspiro/espiro.
Eseguire il respiro diaframmatico anche nel nostro quotidiano significa lasciare che il dolore prenda forma. Proviamo
a pensarci. Il dolore fisico si materializza da solo, si «fa sentire», manda segnali al nostro corpo. Ma il dolore
dell’anima si muove su territori diversi. E’ difficile da definire, da circoscrivere, da lenire. Il primo passo è quello di
visualizzarlo. Ecco allora tornare in gioco il diaframma. Quando inspiriamo la mente prende coscienza del dolore
interiore e gli dà forma, lo fa perché le nostre tensioni e le nostre angosce irrigidiscono il diaframma e gli impediscono
il suo naturale movimento. E’ un segnale forte che non possiamo ignorare. Allo stesso tempo il diaframma registra e
«raccoglie» tutte quelle sollecitazioni che la mente non riesce più a gestire e non sa più risolvere. E’ un passaggio di
consegne, da una dimensione fisica ad una diversa, più spirituale, la dimensione dell’anima. E’ la famosa «Finestra
dell’anima» a cui si riferisce il maestro B.K.S. Iyengar. Scoprire il dolore, averne consapevolezza, accettare di
accoglierlo e infine espellerlo. In una parola: espirazione. E’ la vita in equilibrio. E’ il solo modo che conosco di stare
al mondo.
A queste cose pensavo guardando il servizio televisivo di cui parlo all’inizio di questa mia riflessione. Nel servizio si
parla di un centro di recupero - in Vietnam - per gli orsi seviziati. La responsabile del centro, una giovane signora,
auspica un totale recupero degli orsi entro il 2020. Ora so che il mio respiro è con questo progetto. Lo è la mia ricerca
dell’equilibrio, lo è il mio bisogno di dare armonia al mondo. Ancora una volta e per sempre, è il mio inno alla vita.